Mejerchol’d diceva: “Prima il suolo”. Lo afferma anche il mito vedico della creazione, quando racconta di come Prajapati, prima di accingersi a creare, decise, prima di tutto, dovesse esserci un supporto su cui poggiare. La questione sembra essere di non poca importanza anche per i Greci quando raccontano della contesa tra Poseidone e Atena per il possesso dell’Attica. Il dio del mare (e delle terre emerse) fece sgorgare una sorgente, fedele alla fluidità del suo elemento primario, mentre la dea dall’occhio azzurro e profondo piantò la sua lancia a terra e da un’arma nacque una pianta di pace, cara a colei che difende: l’ulivo dalla foglia argentea. Gli uomini furono chiamati a giudicare e scegliere: vinsero le radici profonde? O, forse, dove era l’ulivo, era la protezione della dea glaucopide? L’ulivo divenne dunque l’albero simbolo di Atene le cui colonie si sparsero per il Mediterraneo a partire dall’VIII sec. a. C, perché avere radici non significa essere immobili.
Chi legge si chiederà perché questo indugiare su antichi dei, alberi d’ulivo e rispettive radici. So che abitiamo un mondo in cui si ha sempre fretta ma, lettore, se avrai ancora un attimo di pazienza, prometto di arrivare al punto. Ci sono cose che vanno dette lentamente. Si diceva: prima il suolo. Ciò di cui voglio parlare e di cui sono stato testimone è stato visto in terra sarda, nel Sulcis-Iglesiente, una zona povera, forse la più povera, non solo dell’isola, ma della penisola intera, magnifica nella sua desolazione brulla e apparentemente ostile. Qui, nel comune di Villamassargia, si trova un parco naturale, S’ortu Mannu, colmo di ulivi millenari e secolari. Sotto le fronde di questi alberi antichi, cari ad Atena, ma sacri per qualsiasi popolazione del Mediterraneo, nell’ambito delle attività spettacolari del festival Cortoindanza diretto da Simonetta Pusceddu, il botanico aragonese Bernabé Moya, esperto di alberi monumentali e biodiversità, e l’artista Costanza Ferrini presentati dall’archeologa Laura Sedda, hanno letto il Manifesto degli ulivi Millenari sardi ai fratelli del Mediterraneo intero, uniti insieme nel denunciare il pericolo in cui versa la specie vegetale più ricca di cultura e di memoria del nostro angolo di mondo. Le malattie, l’inquinamento, la cementificazione, il cambiamento climatico ma soprattutto i conflitti armati, stanno mettendo in grave rischio gli ulivi secolari e millenari (ma non solo) del nostro Mar Mediterraneo (pensiamo all’operazione Ramoscello d’ulivo messa in opera da Erdogan contro le popolazioni curde in cui sono state sradicate ben 300000 piante, o al muro che divide i Territori Occupati da Israele e taglia le radici dell’ulivo più antico del mondo). Colpire gli ulivi per percuotere le popolazioni e le loro culture significa prima di tutto rinnegare le proprie radici. È l’ulivo che annuncia a Noè la fine del Diluvio, è l’ulivo che viene scelto dalla polis per proteggere e fondare la città di Atene. Non vi è cultura nel Mare Nostrum che non sia debitrice nei confronti dell’albero dalle foglie argentee di cultura, di medicina, di nutrimento. Eppure ce ne siamo dimenticati, e la memoria delle nostre radici culturali si fa sempre più tenue rendendoci anonimi e spaesati di fronte a un futuro che non siamo più in grado di immaginare. Sotto le piante d’ulivo di S’Ortu Mannu, in un campagna che sa di mirto e di elicriso e s’odono di lontano le campanelle degli armenti al pascolo, prende vita lo spettacolo Elegia delle cose perdute di Compagnia Zerogrammi per la coreografia di Stefano Mazzotta. L’opera, ispirata dal romanzo I poveri di Raul Brandao e dalla stessa terra di Sardegna dove è nato e si è in gran parte sviluppato, accoglie in sé tutto ciò di cui si è parlato finora: la memoria, le radici, il senso di perdita, l’abbandono, la morte. Un uomo con un piccolo lampione legato allo zaino si avvicina. Intorno a lui il buio tenuto a malapena a distanza dalla lucina che porta appresso. Sedutosi su uno sgabellino, comincia a porre a terra delle vecchie paia di scarpe. Sono proprio questi oggetti a richiamare le altre apparizioni: dalle calzature si dipana la matassa delle immagini. La donna che non ricorda cosa ha tralasciato e di chi siano i nomi delle persone che chiama a sé, il becchino che con la sua pala seppellisce una pianta già morta, il danzare sulle note malinconiche di un vecchio valzer sovietico. Malinconia frammista a gioia di vivere, struggimento per ciò che si è perso e si perderà, per le cose dimenticate eppure importanti, per il tempo che se ne va, tutto in Elegia delle cose perdute ci induce a riflettere su quanto poco siamo attaccati alla terra, non solo perché pronti a volar via al primo soffio di vento forte, ma soprattutto perché privi di un passato e incapaci di costruire un futuro diverso dal presente miserevole in cui ci troviamo impantanati. Magnifica l’ultima immagine in cui l’occhio dell’osservatore si trova rapito e trasportato in una vecchia foto color seppia, dove a ogni nuova inquadratura, le persone gradualmente svaniscono e rimangono solo le vecchie scarpe, anche loro, infine, inghiottite dal buio. Elegia delle cose perdute riesce con grande poesia a restituirci l’anima del libro di Brandao, delle classi povere rurali, dei semplici, ma ci ricorda anche da dove veniamo, da quale realtà povera e contadina sorga questo paese ora arrogante nel sentirsi ricco e civile, vincente anche quando corroso dalle miserie, totalmente sradicato perché incapace di ricordate per cosa ha combattuto e su quali ceneri è risorto. Certo l’opera di Zerogrammi non è connotata in senso apertamente politico, ma proprio perché sa essere universale diventa politica in senso ampio, capace di condurre a una profonda riflessione attraverso le immagini che sa costruire e all’empatia di conseguenza generata in chi guarda. Non ci sono discorsi o proclami, solo grande arte, pronta a sussurrare saggi e complessi enigmi in ogni orecchio aperto all’ascolto. Elegia delle cose perdute sarà anche un film in anteprima al prossimo Festival Oriente-Occidente e ovviamente in Sardegna in autunno.
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