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Viaggio nella memoria delle cose perdute (Giuseppe Distefano | Cittanuova.it)



Lo spettacolo “Elegìa delle cose perdute” del coreografo Stefano Mazzotta parla del tema dell’esilio, della condizione morale di chi si sente estraneo al mondo in cui vive, sospeso tra speranza e nostalgia. Al Festival Oriente Occidente

Gli spettacoli della compagnia Zerogrammi, per la coreografia di Stefano Mazzotta, trasportano sempre in un mondo poetico, attraversando un passato di cose perdute, di sentimenti antichi ma perennemente nuovi. Dove ricordi, nostalgie, sogni, illusioni, si materializzano nei corpi dolenti o gioiosi di personaggi che sembrano emergere da album recuperati da vecchi bauli, e riaffiorare nel presente. Per dirci chi eravamo, chi siamo oggi, cosa abbiamo smarrito, e cosa possiamo ancora essere. In Elegia delle cose perdute – spettacolo site-specific che ha debuttato al Festival Oriente Occidente di Rovereto nel Giardino delle Sculture del Mart – sono anime vaganti percorse da una malinconica euforia in una liturgia di gesti che rimandano agli stilemi del teatro-danza di bauschiana memoria.


Elegia delle cose perdute s’ispira al romanzo d’inizio ‘900 Os Pobres (I Poveri) dello scrittore e storico portoghese Raul Brandão, scritto nel momento di una nazione alle prese col fallimento del suo progetto coloniale, le conseguenze di una pauperizzazione interna crescente, e con il disfacimento dei progetti della moderna urbanizzazione. Mazzotta mette in scena un’opera di pura poesia, sprigionata da una comunità derelitta, esiliata, portatrice d’inquietudini, di desideri, di aspirazioni, di ricerca e attaccamenti alle proprie radici, di abbandono e di speranza. All’ingresso lento e sperduto di un uomo che porta sulle spalle un piccolo lampione, uno zaino, un ciuffo di spighe, altri oggetti e delle scarpe vecchie che sistema davanti a sé sedendosi su uno sgabello, segue l’apparizione di uno stuolo di figure evocate in abiti contadini, tra cui una donna col viso coperto da un velo bianco.

Infilandosi le calzature, uno ad uno prendono consistenza delle loro storie attivando un racconto di anime provenienti da un mondo rurale, lontano, incerto come lo sono i loro passi. Raggruppandosi compiono azioni e gesti di umanissima ritualità, come quella attorno a un vaso con una pianticella da interrare, da proteggere, da dissodare, cercando il posto giusto. Nell’andare e venire dalla schiera si sfilano le individualità. Ci sono madri e figli, spose e vedove, fratelli e amici. C’è una donna farneticante per non riuscire a ricordare i nomi delle persone e le date di eventi della sua vita; c’è chi rotola, salta, chi improvvisa giochi, chi grida, chi lotta, e chi si abbandona al peso di una caduta, di un ballo corale o da solo. Ci si muove in gruppo attorno a chi piange, consolando, abbracciando, sollevando in corsa, fluendo in punti diversi, tra suoni di campanacci e voci campestri, tra un valzer di Shostakovic e una canzone popolare, mentre ci si bagna da un catino. Si segue il ritmo di una banda, di una processione e un canto sardo, camminando inseguendo la propria ombra proiettata da un faro di luce sul grande muro, confluire in una foto di gruppo, e uscirne per sempre fuggendo chissà dove.


Gradualmente ciascuno esce dall’inquadratura e tutto ritorna, infine, alla scena iniziale con le sole scarpe a terra e l’uomo col suo lampioncino che spegne. Attraverso una gestualità in bilico tra la clownerie e la danza espressionista, quella contemporanea e quella dal segno più teatrale, i 7 personaggi, nella sospensione tra sogno e realtà, nella vertigine del tempo e della memoria, compongono un grande affresco che parla dell’esilio morale, «quella condizione nella quale ci troviamo – spiega lo stesso coreografo – quando sentiamo di non appartenere a un contesto specifico, di non appartenere alle regole che questo contesto detta, o di essere distanti dall’altro. Sentimento che si declina in mille possibilità differenti riguardanti il sentimento del tempo che passa. L’esilio morale è la nostalgia di qualcosa che è stato, o forse non è stato mai; o che è stato e che non potrà mai più essere». E proprio per questo è fautrice di speranza nel futuro, nella vita come “attraversamento”, dove niente è perduto.

Elegìa delle cose perdute è anche un bellissimo film firmato da Stefano Mazzotta e dal cineasta Massimo Gasole, frutto di diverse residenze artistiche in alcuni paesaggi della Sardegna: dalla piccola cittadina del cagliaritano Settimo S. Pietro con il suo Cuccuru Nuraxi, alle spiagge bianche e le dune della costa sud-orientale.





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